Interoperabilità, concorrenza e conoscenza a beneficio della democrazia

Interoperabilità - Quintarelli

Pubblichiamo la trascrizione dell'intervento di Stefano Quintarelli al seminario EUMANS PER LA DEMOCRAZIA DIGITALE - Milano, 21 giugno 2019.

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Ho un’esperienza un po’ strana. Sono un informatico e un imprenditore e ho fatto il deputato nella stessa legislatura del senatore Orellana. Entrambi facevamo parte dell’inter-gruppo innovazione costituito da parlamentari che cercavano di spingere sui temi dell'innovazione tecnologica.

Marco (Cappato) ha descritto bene il problema della customizzazione di massa, del fatto che questi strumenti consentono di dare messaggi alle persone in modo tale che ciascuno può sentirsi dire quello che vuole - raccontare ai giovani “darò più soldi ai giovani” e raccontare agli anziani “darò più soldi agli anziani” e raccontare alle donne “darò più soldi alle donne”, e far tutti contenti salvo poi in realtà non essere conseguente a quello che si dice.

Mi viene in mente una ricerca fatta da Fusca Giannotti, professoressa di Bologna che si occupa di intelligenza artificiale, che ha mostrato come sui social è facile arrivare ad una mediazione e ad un accordo, nel giro di venti interazioni. Lo studio dimostra come posizioni molto diverse, molto lontane possono arrivare a trovare una sintesi: la politica è l’arte del compromesso. Questo però non è nell’interesse dell’azienda.

L’interesse dell’azienda è che ci sia quanto più engagement possibile, ossia gente che si scanna, mantenere la polarizzazione quanto più possibile. Per cui gli algoritmi - quelle bestie che organizzano la comunicazione on line - tendono non a favorire la conciliazione e a trovare una sintesi ma al contrario a radicalizzare le divisioni perché cosi si passa più tempo online e si hanno più interazioni, si fa spazio alla pubblicità e via dicendo.

Detto in altri termini, quella che dovrebbe essere la funzione-obbiettivo della società è diversa dalla funzione-obiettivo dell’azienda. L’obiettivo dell’azienda è far partecipare quanta più gente possibile con opinioni radicalmente diverse.
Sullo stesso argomento trattato con un algoritmo diverso dopo duemila interazioni, mostra la professoressa Giannotti, le posizioni sono perfettamente polarizzate e antagoniste cioè da una parte nel giro di 20 interazioni arrivo ad un consenso, dall’altra parte nel giro di 2000 radicalizzo le divisioni.

Ora, il nocciolo di questa cosa è l’algoritmo che governa le interazioni. Il software che implementa queste comunicazioni ahimè è gestito da un solo soggetto. Quando negli Anni 90 fu deciso di favorire lo sviluppo di quella che si chiamava allora “la società dell’informazione” - perché non possiamo avere un modello di sviluppo basato sul cemento, sull’asfalto e sull’acciaio quindi è giusto andare verso un’economia dematerializzata, verso l’economia dell’informazione - fu deciso di applicare tanta regolamentazione ma non regole sulla concorrenza.
Non regole sulla concorrenza vuol dire che le regole attuali favoriscono e incentivano il fatto che uno abbia una posizione di monopolio.

Questo si porta dietro un sacco di implicazioni, ad esempio che l’algoritmo è uno solo e che chi gestisce l’informazione è uno solo e quindi questo ulteriormente consente, da una parte di influenzare con un solo canale tantissime persone e dall’altra di non avere algoritmi in concorrenza e quindi di trovare potenziali valori diversi. Faccio un esempio banale perché mi rendo conto che magari è una cosa non ovvia per chi non la vive tutti i giorni.

Tutti voi usate la mail, decidete con che fornitore usare la mail e la mail funziona a prescindere dal fornitore che sia Tim, Telecom, Virgilio, Libero, Google tutto funziona, è interoperabile. Viceversa se pensate a WhatsApp è un servizio unico gestito da un’azienda, questo perché? Perché le regole lo rendono possibile. Quindi nel momento in cui io riesco a conquistare la dominanza planetaria su un servizio con un modello di competizione che non prevede la possibilità di più soggetti di inter-operare come fanno i signori che gestiscono le mail, si vengono a creare delle posizioni di monopolio, che ogni tanto vengono sanzionate però intanto si sono create.

Queste posizioni di monopolio riducono la biodiversità di sistema - ne abbiamo solo uno - e accentrano il potere di chi gestisce l’algoritmo. Tenete presente che quando si dice disintermediazione è una palla: la comunicazione on line non è disintermediata nella mail proprio perché ci sono tanti fornitori di mail. Negli altri servizi è invece intermediata da un algoritmo cioè da qualcuno che decide cosa vedi, che cosa non vedi, cosa ha rilevanza e cosa non ha rilevanza.  

Quindi c’è un’intermediazione algoritmica. Questo proprio perché non c’è stata all’inizio una regola pro competitiva a favore della concorrenza che stabilisse un obbligo di interoperabilità dei servizi. È una cosa molto tecnica e ha dei risvolti economici anche molto importanti, perché è chiaro che se il premio può essere avere il monopolio mondiale  di una cosa, diventare Uber l’unico che affitta le auto, diventare Airbnb l’unico che affitta case, al massimo arrivo ad un oligopolio che sostanzialmente è Booking, ossia il monopolio di pochi, al massimo arrivo a quello. Io vado da un venture-capitalist e mi faccio dare una quantità di denaro e per lui sarà di grande interesse perché se io a livello di marketing riesco ad impormi, il premio sarà la dominanza mondiale e l’irrilevanza per tutti gli altri. Questo vale su tutto, sul software del CRM.

Questo ha anche dei risvolti sul mercato finanziario. I finanziamenti alle start up alle aziende tendono a premiare le aziende che hanno per questa ragione la possibilità di diventare leader mondiali. La concorrenza non è più all’interno del mercato. Il fruttivendolo che fa la concorrenza al fruttivendolo due isolati più in là sta nel mercato. Per diventare invece il “fruttivendolo” e  fare in modo che non ce ne sia più nessun altro, si crea una concentrazione anche finanziaria.

Quindi il tema dell’interoperabilità è un tema fondamentale, sebbene sembri una cosa molto tecnica, e alla base lo è, ma quello che diciamo in sostanza è che è un modo per fare più concorrenza perché se anche decidessero i signori dell’anti-trust di fare a pezzi Facebook e di dividerlo da Instagram e da WhatsApp non cambierebbe niente perché  continueremmo ad avere un Facebook monopolio mondiale, un WhatsApp monopolio mondiale. In realtà ci sono dei bacini, ci sono i cinesi che sono chiusi, i russi che sono chiusi, e ci sono i monopoli nei paesi occidentali.

Quindi il tema dell’interoperabilità è importante e ci siamo già passati. Quando con le telecomunicazioni siamo passati ad una sola SIP ad introdurre concorrenza, è stato un passaggio tecnologico che ha consentito di dire questo è il mio numero di telefono lo sposto da Iliad a Tre e quindi di aumentare la biodiversità del sistema e non avere l’algoritmo unico. La tecnologia oggi ci rende possibile sovvertire questi monopoli senza fare a pezzi le aziende - cosa che non risolverebbe niente, perché sono monopoli più stretti ma verticali.

Si tratta invece di aprire delle possibilità per altri per competere, che arrivi la Omnitel della situazione che inter-operi con Telecom, e quindi aprire alla concorrenza alla molteplicità dei fornitori, rompere gli effetti perniciosi sul mercato venture-capital, aumentare finanziamenti locali, aumentare gli algoritmi e poter andare a misurare e vedere cosa è cambiato effettivamente nei punti in cui questi signori si scambiano dati, perché oggi essendo tutti all’interno di un unico soggetto sono tutti delle black-box,  dove dietro non sappiamo cosa succede e non sappiamo in che misura Facebook abbia influito veramente - lo abbiamo saputo dopo per altre vie - sulle elezioni di un paese.

A Taiwan c’è una ragazza che ha occupato il parlamento e ha fatto un hackathon, cioè ha, insieme a dei ragazzi, sviluppato un software e dopo un po’ di tempo è diventata Ministra per il digitale, un’esperienza molto bella.
Noi abbiamo il mito del voto, è sbagliato chiamarlo il mito del voto, ma pensiamo che la democrazia sia uguale a votare, in realtà votare è una cosa molto complicata.

Vuol dire informarsi, assumersi la responsabilità, conoscere come si formano le liste, come si formano i candidati, gli ordini del giorno, quando si decide di votare. Il voto poi se lo facciamo con carta e penna è una cosa tipicamente mono-dimensionale: esprimiamo un voto a Marco piuttosto che a un'altra persona, ma la tecnologia ci consente di fare molto di più. Ci sono degli algoritmi che consentono alle persone di scegliere di partecipare, di informarsi e quello che hanno fatto a Taiwan è stato di innovare moltissimo sul processo di partecipazione.

Sono socio di una associazione che si chiama “i Copernicani” che fa tre cose: informazione, software e proposta di policy pro-futuro. Nel software stiamo facendo proprio questo, stiamo costruendo dei pezzi di software open source che siano disponibili, che siano ispezionabili, che chiunque voglia possa adottare e non siano verticalmente integrati con una struttura, altrimenti si incorre nei soliti problemi, in modo tale da poter portare processi di partecipazione dove la parte della modalità di selezione e di espressione del giudizio è solo una parte, dipende poi molto dalle regole, perché una cosa è votare per la Camera dei Deputati, una cosa è votare per il condominio, un’altra cosa è votare per un partito.

L’organizzazione è un contenuto. Tutti gli statuti che ho visto di tutti i partiti sono disegnati in modo tale da fare sì che il controllo effettivo di quello che le persone possono fare partecipando sia deciso tra alternative a, b e c dei capo-cordata a, b e c: questa non è una vera e propria partecipazione
Il software deve sempre fare tante cose, ci sono dei vincoli regolamentari.
La partecipazione parte dalle organizzazioni, dalle regole che ognuno si da, dagli statuti e dai regolamenti. Quindi c’è tantissimo lavoro da fare.